Assetto ormonale, profilazione molecolare, reazione ai farmaci, etnia ma anche opportunità di accedere agli studi. L’oncologa Rossana Berardi ci spiega quante differenze di genere stanno emergendo negli studi medici
Era il 1991 quando la cardiologa americana Bernardine Healy osservò in un editoriale su The New England Medicine che la diagnosi di infarto al miocardio nelle donne era sottostimata a causa di una differenza nella manifestazione dei sintomi. E definì la situazione femminile “Yentl sindrome”, dal nome della protagonista del racconto di Isaac Singer, costretta a travestirsi da uomo per poter studiare la Torah. Già, perché le chances aumentano nei casi in cui i sintomi, sempre parlando di infarto, sono gli stessi accusati dagli uomini.
Quell’editoriale segnò ufficialmente l’esordio della medicina di genere. Ma cos’è cambiato in questi 32 anni? Ne parliamo con Rossana Berardi, presidente di Women for Oncology Italy e professore ordinario di oncologia all’Università politecnica delle Marche.
Fino a pochi anni fa, solo il 20% delle donne partecipava agli studi clinici. E oggi?
La situazione sta migliorando anche se a fatica. A creare resistenze all’ingresso delle donne negli studi sono fattori socio-sanitari e mi spiego meglio. Partecipare a una ricerca vuol dire avere un’opportunità terapeutica importante, e su questo nessuno discute. Ma ci sono regole ferree da seguire per quanto riguarda il monitoraggio dei pazienti reclutati. Ci sono ad esempio controlli aggiuntivi ravvicinati nel tempo, ogni sette-quindici giorni talvolta, con una compliance maggiore rispetto a quanto avviene nella pratica clinica. E questo purtroppo è un fattore limitante per le donne che continuano a rappresentare il perno della famiglia. Pensiamo solo a quando lo studio si svolge in un Centro che ha le qualifiche per poterlo condurre ma potrebbe non essere vicino a casa. Accettare, da parte della donna, significa avere un caregiver che la accompagna e la aspetta, e spesso anche una terza persona che si occupi dei figli se sono piccoli. Messe sul piatto della bilancia, sono tutte criticità che vanno a scapito dei benefici dati da uno studio clinico. La donna così rinuncia e bisogna lavorare affinché questo accada sempre meno nel futuro.
Quindi i fattori ormonali non c’entrano?
Altro che se c’entrano tanto che per alcune patologie in particolare si fanno sempre più concrete le ipotesi relative a differenze di genere legate all’assetto ormonale, anche nell’ambito di patologie non ormono-sensibili. Ma le ricerche in corso in questi ambiti oggi ci stanno dicendo ancora altro. Stanno emergendo infatti differenze legate al profilo bio-molecolare.
In particolare, uno studio canadese pubblicato di recente ha analizzato in 40 stati diversi di quattro continenti, l’incidenza del tumore al polmone in donne e uomini, stratificandola per fasce d’età. Quello che è emerso è un aumento di incidenza soprattutto tra le donne in età più giovane, sotto i 50 anni. Questo, di primo acchito, fa pensare che sia un dato da ricondurre all’aumento dell’abitudine al fumo tra le donne, ma non è del tutto vero. A far supporre che non sia così semplice la spiegazione è innanzitutto il fatto che i casi siano aumentati nella fascia più giovane e qui forse il fumo non ha ancora provocato tutti i danni che causa nel tempo. A questo studio si aggiungono dati di altre ricerche, che stanno evidenziando un aumento dei casi di adeno-carcinoma più che di squamosi, cioè della forma di tumore al polmone più legato al fumo. A quali riflessioni ci porta tutto ciò: al fatto che forse esistono altri fattori legati al genere, che vanno oltre l’abitudine tabagica, come l’aspetto ormonale, la profilazione molecolare, l’etnia. Tutto ciò dà ancora maggiore peso all’invito di non fumare, o di smettere per chi fuma. Perché bisogna evitare, agendo sullo stile di vita, di avere rischi aggiuntivi.
C’è molta attenzione ultimamente anche alle differenti reazioni ai farmaci: c’è qualche novità?
Uno studio pubblicato sul Journal Clinical of Oncology a inizio 2022, ha analizzato 200 studi clinici per verificare il rischio di eventi severi in pazienti trattati con immunoterapia, Target Therapy e chemio. L’obiettivo era quello di avere più informazioni a disposizione per quanto riguarda le differenze di genere e non siamo rimasti delusi. Intanto, è stato dimostrato che le donne hanno eventi di una gravità maggiore rispetto agli uomini. Queste differenze potrebbero essere dovute a un metabolismo diverso dei farmaci, ad esempio, e magari anche a una diversa aderenza alla terapia. Fra l’altro, lo studio ha evidenziato che le differenze sono più marcate nel caso dell’immunoterapia, cosa che non potrà essere tralasciata nei prossimi studi.
Nell’attesa, cosa si può fare per migliorare la medicina di genere?
In oncologia abbiamo già iniziato nei nostri percorsi a coinvolgere anche altri specialisti al di fuor del core team. Nella Breast Unit che coordino ad esempio abbiamo stabilmente gli specialisti che sono complementari al percorso di cure oncologiche, come il cardiologo, l’endocrinologo, chi si occupa di nutrizione e chi di attività fisica. Questo, per battere sul tempo gli effetti collaterali che impattano sulla patologia oncologica, a favore di un miglioramento della qualità di vita delle nostre pazienti. E’ necessario poi potenziare l’insegnamento della medicina di genere all’università e nelle scuole di specializzazione: al momento latita ancora nonostante sia indicato in una legge del 2019. Infine, come AIOM, l’associazione che riunisce gli oncologi, stiamo per pubblicare le prime raccomandazioni sulla medicina di genere, sulla base delle evidenze scientifiche.