Close the care gap ovvero accorcia le distanze: era questo l’appello del World Cancer Day del 4 febbraio scorso. Perché ancora oggi, circa la metà della popolazione mondiale non ha accesso ai servizi sanitari essenziali. Che, nel caso di un tumore, significa non ottenere neppure le cure di base, nonostante gli enormi progressi che sono stati fatti grazie alla ricerca. Un divario, questo, che non è di oggi e che da anni mobilità le comunità scientifiche internazionali, con l’obiettivo di trovare soluzioni.
Vale per tutti il documento con le Linee globali ESMO pubblicate il 19 ottobre 2021 su Annals of Oncology, che hanno rappresentato il primo passo verso cure democratiche. In questo caso si tratta di tumore al seno metastatico e sono comprese proposte di opzioni terapeutiche diverse, in base al contesto sociale, economico e geografico, al fine di garantire possibilità di cure a tutte le donne colpite da questa forma oncologica. Ma nel nostro Paese, com’è la situazione?
Ne parliamo con Giovanni Apolone, Direttore Scientifico Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.
Dottor Apolone, anche per l’Italia vale la richiesta di quest’anno del World Cancer Day?
Ci sono Nazioni che ne hanno sicuramente più necessità di noi, ma “close the care gap” è un appello che ha una sua realtà anche nel contesto nazionale, per problematiche interne al nostro Paese. Noi abbiamo un sistema universalistico, che garantisce a tutti i cittadini l’accesso alla sanità, gratuitamente e in ogni circostanza e su questo non si discute. Ma è sempre più evidente che esistono differenze nei tempi di accesso e lo dimostra il fatto che il 25% delle spese per la sanità sono pagate dal cittadino, direttamente oppure tramite un’assicurazione sanitaria. Ma in Italia esiste una capacità di spesa diversa da regione a regione, perché è diversa la ricchezza e questo diventa una barriera, all’interno del Paese stesso, della capacità di avere un accesso alle cure. In altre parole, quel 25% che ho citato prima, non riguarda tutto il territorio nazionale.
Questo vale anche in oncologia?
Certamente e qui assistiamo a un altro fenomeno. Avere accesso alle cure vuol dire anche avere accesso agli studi clinici e qui nasce un problema. Oggi sappiamo che gli studi con farmaci innovativi sono concentrati soprattutto nelle regioni del nord Italia. Per intenderci, le molecole oggetto di ricerca, con la metodologia ora applicabile agli studi delle fasi precoci, arrivano agli studi confirmatori avendo già superato diverse verifiche per quanto riguarda la sicurezza e l’efficacia e per questo prospettano chances elevate di risultati positivi. La maggiore disponibilità di trial al Nord, dunque, diventa un ulteriore motivo di emigrazione interna, spesso però per chi ne ha la possibilità. Le disuguaglianze socio-economica e finanziaria sono anche in Italia e dove ci sono nicchie di povertà, c’è inevitabilmente una minore possibilità di accedere a Centri con buone qualità di cura, sempre e soprattutto se questo significa spostarsi da una Regione all’altra.
Ci sono delle soluzioni?
Intanto, diciamo che la pandemia ha portato con sé un calo nell’emigrazione inter-regionale, un fenomeno che ha diverse spiegazioni ma comunque ma da non sottovalutare. Oggi ad esempio il secondo parere si può richiedere utilizzando la telemedicina e questo è indubbiamente un vantaggio per il paziente che non ha così i costi relativi a viaggio e soggiorno.
Un’altra soluzione potrebbe essere quella di evitare per quanto riguarda la sanità, gli investimenti cosiddetti “a pioggia”, mirandoli invece alle realtà che necessitano di aiuto.
Un discorso a parte merita poi la medicina del territorio. Con la pandemia purtroppo abbiamo pagato caro il fatto di avere in alcune regioni il sistema sanitario troppo ospedale-centrico. Oggi ci sono alcune best practice, proprio sull’onda di quanto accaduto soprattutto nel 2020, e forse bisognerebbe partire proprio da queste esperienze per implementare una medicina del territorio che sia adeguata al concetto di sistema universalistico.