L’oblio oncologico va oltre il “semplice” ambito legislativo, tocca temi profondi legati alla percezione della malattia, alla fragilità e al significato della vita stessa. Lo abbiamo chiesto a Luciana Murru, psico-oncologa dell’Istituto dei Tumori di Milano.
Durante il quinto appuntamento di Salotto Salute, evento che promuoviamo insieme alla pasticceria Cova di Milano, è stato approfondito un tema molto delicato: l’oblio oncologico, ovvero il diritto delle persone guarite da un tumore, di non fornire informazioni né subire indagini in merito alla propria pregressa malattia.
Luciana Murru, psico-oncologa dell’Istituto dei Tumori di Milano, fornisce una riflessione su come il termine “oblio oncologico” richiama la necessità di dimenticare, ma al contempo evidenzia quanto sia riduttivo rispetto alla complessità dell’esperienza umana legata alla malattia.
Dottoressa, perché abbiamo la necessità di una legge sull’oblio oncologico?
La legge sull’oblio oncologico nasce dalla necessità di eliminare la discriminazione delle persone malate di tumore. Per esempio, molte persone guarite dal tumore non possono accedere a un mutuo o a un’assicurazione perché il loro passato oncologico viene percepito come una “condanna”. La legge vuole affermare che la vita va sostenuta sempre e comunque, indipendentemente dalla malattia che una persona ha affrontato.
Nel termine oblio oncologico, compare la parola oblio che significa dimenticare, ma è giusto che una persona che ha avuto un tumore dimentichi?
Sì e no. Ci sono alcune cose che vanno dimenticate e altre invece dove è fondamentale lavorarci. Per alcuni le esperienze di dolore possono rappresentare esperienze di risveglio. L’oblio oncologico, inteso come eliminazione della discriminazione, non implica cancellare il vissuto, ma riconoscerlo e permettere alle persone di andare avanti senza che il loro passato oncologico sia un ostacolo.
Dottoressa, come le esperienze difficili possono trasformarsi in opportunità di crescita?
Mi piace ricordare Hannah Arendt, che invitava a chiamare gli esseri umani non “i mortali”, ma “i natali”, tutti noi tendiamo a sopravvivere ad andare oltre. Una paziente oncologica, per esempio, ha descritto come il partecipare a un gruppo di terapia l’abbia aiutata a vedere la malattia come un punto di partenza per apprezzare di più la vita. Questa esperienza l’ha aiutata a riscoprire la forza vitale, il coraggio e l’amore verso sé stessa e gli altri. La sofferenza non va necessariamente allontanata, ma può essere trasformata in una fonte di consapevolezza e significato.
Quanto sono importanti le parole per chi attraversa l’esperienza della malattia oncologica?
Le parole sono potentissime. Noi siamo gli unici animali che produciamo parole, con le parole creiamo, con le parole partecipiamo al progetto divino. Dunque, quando si parla di oblio oncologico, stiamo togliendo la discriminazione, ma semplificando l’esperienza umana che invece è qualcosa di molto più ricco.

Biologa, divulgatrice scientifica. Si occupa principalmente di temi legati alla salute e alla medicina, con l'obiettivo di renderli comprensibili e accessibili al grande pubblico.