Franca Fossati Bellani per i bambini era la “dottora”. E’ stata la prima donna medico dell’Istituto Tumori e primario del primo reparto di Pediatria oncologica in Italia. Dal suo osservatorio privilegiato, ci racconta cos’è cambiato e cosa ancora manca nella cura dei tumori dei bambini.
Si dà spesso per scontato ciò che si ha attorno, senza soffermarsi su quanta fatica, volontà, passione, ha portato a rendere concreti progetti, idee, intuizioni. Una riflessione, questa, che viene spontanea leggendo “Curare i bambini è la mia medicina”, scritto da Franca Fossati Bellani (già presidente di LILT dal 2010 al 2014). La “dottora”, come veniva chiamata in reparto, racconta i suoi anni all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, in un mix di storie di bambini e di ragazzi curati, di chi purtroppo non ce l’ha fatta e di chi invece ha superato la malattia, di viaggi carichi di esperienza e di persone che col loro contributo, hanno fatto sì che la pediatria dell’Istituto tumori di Milano diventasse un’eccellenza, e non solo per le terapie.
È stata in Istituto tumori dal 2 gennaio 1967 al 31 dicembre 2008. Cos’è cambiato in 41 anni?
Tutto è cambiato progressivamente nel tempo. In Italia i tumori pediatrici erano generalmente affidati alla chirurgia e non c’era un approccio sistematico alla malattia. Sono arrivata in Istituto nel 1967 con una borsa di studio, volevo rimanerci un anno, ne sono passati 40, grazie al fermento che c’era in Istituto, dove per merito di Veronesi, Bonadonna, Ravasi, Molinari è nata l’oncologia italiana. Il confronto coi colleghi oltrefrontiera per me è stato fondamentale. Tra i momenti in cui si è consolidata la mia appartenenza all’Istituto, è stato il soggiorno nel ‘69 a Parigi. Ho osservato la loro organizzazione, la modalità di lavoro in collaborazione, i risultati terapeutici delle loro esperienze. Sono rientrata in Italia con un bagaglio di nozioni che ho condiviso, che mi sono servite nella pratica clinica e nell’organizzazione del lavoro. Da lì in poi, all’Istituto le stanze per bambini e adolescenti sono diventate due, poi quattro con soggiorno e cucina, nel 1975 la pediatria conquista mezzo corridoio al sesto piano e nell’84 ha finalmente anche una sua autonomia fisica. Non posso dimenticare il contributo di un carissimo collega pediatra, il dottor Marco Gasparini, con cui abbiamo affrontato non solo i problemi della cura delle malattie ma anche tutti i bisogni di assistenza psico-sociale.
Oggi la pediatria oncologica è un mondo nell’oncologia assolutamente unico. Come è iniziato tutto ciò?
Più che un inizio, c’è stato un intreccio di incontri, tra medici, educatori e volontari. Penso ad esempio alla maestra Nucci. Quando è arrivata in Istituto, ha intuito che sarebbe stata la partner di noi medici: il suo ruolo non era solo quella di insegnare ai bambini ricoverati, ma anche quello di segnalare le criticità, le problematiche che potevano essere rischiose al fine del buon esito delle terapie. Da lì, le riflessioni sulla famiglia, sulla necessità di supportarla e quindi l’avvio di un’assistenza psicologica. Fondamentale è stata la creazione di un pool infermieristico totalmente dedicato e non imposto da aspetti organizzativi.
I cambiamenti sono stati anche per quanto riguarda la presenza dei genitori?
Negli anni ’60 in nessuna pediatria era prevista la presenza di un familiare. Noi siamo stati i primi in Italia a istituzionalizzare la presenza dei genitori in reparto e questo grazie a Doretta, una mamma che ha dato il via al cambio nelle regole. E con ragione. I bambini non possono essere abbandonati e così i loro genitori. Anche questo è stato un momento di evoluzione e un ruolo importante lo ha avuto la mia visita negli Stati Uniti, all’organizzazione di case-albergo dedicate ai genitori con bambini ricoverati o in cura ambulatoriale. Abbiamo “importato” il progetto da noi insieme a LILT, con un primo appartamento vicino all’Istituto, la prima Casa del cuore di tante.
Oggi cosa manca?
Abbiamo imparato moltissimo e i risultati terapeutici sono in linea con le altre Istituzioni del mondo occidentale. Oggi mancano i mezzi per incentivare la ricerca di base e la ricerca clinica, per capire le cause che inducono la malattia, per migliorare i piani terapeutici e per verificare se i progressi ottenuti con le terapie immunologiche nella terapia dell’adulto possono essere trasferiti in pediatria. Ci sono poi quesiti importanti che si sta ponendo la comunità internazionale e che riguardano le possibili conseguenze a lungo termine delle terapie oncologiche.
Sono domande che richiedono risposte, con l’obiettivo di far sì che la malattia oncologica nel bambino, ma anche nel giovane, possa divenire un ricordo che si affievolisce nel tempo, per consentire un progetto di vita a tutto tondo per ogni ex malato.
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