Una ricorrenza internazionale ci rammenta il ruolo fondamentale delle donne e delle ragazze impegnate nelle aree scientifiche: scienza, tecnologia, ingegneria e matematica. Abbiamo scelto la ricercatrice Ketta Lorusso per rappresentarle tutte in una intervista che mette a fuoco la scelta di diventare medico e la sua passione per la ricerca.
Oggi è la Giornata internazionale delle donne e delle ragazze STEM, quelle che esercitano la loro attività nell’ambito della scienza, della tecnologia, dell’ingegneria e della matematica. Si tratta di ambiti ampiamente considerati fondamentali per le economie nazionali, ma finora la maggior parte dei paesi, indipendentemente dal loro livello di sviluppo, non ha raggiunto l’uguaglianza di genere.
Un dato vale per tutti. In Italia, nel campo della ricerca, la percentuale femminile di ricercatori è stimata intorno al 33,3% e a loro sono garantite, di solito, borse di studio significativamente inferiori a quelle dei colleghi maschi.
Ma cosa significa per una donna dedicarsi alla ricerca e alla cura? E perché lo fa, nonostante le difficoltà? Abbiamo raccolto i pensieri di Ketta Lorusso, nota ricercatrice di fama internazionale, responsabile della Ginecologia oncologica di Humanitas San Pio X e professore ordinario di Ginecologia e Ostetricia di Humanitas University.
Dottoressa Lorusso, qual è il valore aggiunto di una ricercatrice donna?
“Quello che vedo nel mio lavoro è che le donne hanno l’attitudine alla generosità, al prendersi cura, e ce l’hanno fino al loro ultimo giorno di vita. Sono il centro della famiglia, multitasking, problem solving, e la conservano anche durante la malattia. Pur vivendo gli effetti della malattia, non dicono che stanno male per non fare preoccupare. È una lezione di vita grandissima, e lo è anche per me, quando ti confronti con questi atti di generosità estrema, rimetti ordine nella vita, io mi ritengo fortunata per questo”.
A che punto è la ricerca clinica?
“Mi ritengo fortunata perché stiamo vivendo un momento entusiasmante della ricerca clinica. In tutta l’oncologia, compresi i tumori ginecologici che, essendo rari, sono stati per anni il fanalino di coda. Nessuna novità, continuavamo a fare la chemioterapia standard, e non riuscivamo neanche a capire perché in alcuni funzionava e in altri no. Poi è arrivata la medicina 2.0, che è la medicina personalizzata, la ricerca del biomarcatore, e questo fa sì che il tumore non sia più uno. Esiste il tumore A che si cura in maniera differente rispetto al tumore B. Anche se il nome è lo stesso, geneticamente sono diversi, non sono gemelli. Di conseguenza oggi la ricerca è accelerata. Prima facevamo uno studio clinico e dovevamo aspettare otto anni per chiuderlo, poi altri quattro per avere il farmaco. E questo ha fatto sì che abbiamo imparato a lavorare insieme, gruppi cooperativi nazionali e internazionali che collaborano tra di loro. Oggi abbiamo studi con mille pazienti che si chiudono in un paio di anni e dopo due anni abbiamo a disposizione un farmaco, anche se non è ancora approvato, con uso compassionevole o altro. La ricerca non è mai stata così impattante ed entusiasmante, mi sento fortunata a vivere questa fase della ricerca“.
Perché ha scelto di fare il medico?
“Ho sempre saputo che avrei fatto il medico. Mi piaceva l’idea di essere una figura di riferimento nella vita di altri, e di incarnare una figura di medico che non era quella che avevo visto circolare quando ero piccola.
Mio nonno aveva un tumore. Lo curava un dottore che ignorava mia mamma e scambiava solo due parole con i maschi della famiglia. Questa figura di medico profondamente urticante mi ha fatto capire che volevo fare il medico, ma essere un medico diverso. Spero di esserci riuscita e di trasmettere le mie conoscenze a chi oggi sto formando. Ora devo formare i più giovani, vorrei dare un esempio diverso. Quando faccio le selezioni ripeto sempre: “non posso insegnarvi io a essere brave persone, lo siete oppure no”.
Che cosa fa la differenza in una ricerca in ambito medico?
“Molto dipende dal tipo di studio. La ricerca è sempre importante perché è una catena: dalla ricerca di base alla traslazionale, e via così. Io gli anelli della catena li ho percorsi tutti. La differenza la fanno i risultati di uno studio che cambia la pratica clinica, col farmaco in fase pre-registrativa. E magari, grazie a questo studio, magari per un’idea avuta qualche anno prima, verifichi che il 30% di pazienti in meno ha una recidiva della malattia. Quando ho presentato a Esmo il farmaco Pembrolizumab (NdR. un anticorpo monoclonale umanizzato che agisce contro la proteina PD-1 ed è utilizzato come farmaco antitumorale) e sono scesa dal podio, ho chiamato il mio collega e gli ho detto: abbiamo cambiato la pratica clinica. L’emozione è stata fortissima”.