Da uno studio condotto dai ricercatori dell’Istituto Pascale di Napoli e pubblicato su The Journal for Immunotherapy of Cancer, è emerso che virus come quelli influenzali oppure il più recente Sars Cov 2, inclusi i batteri presenti nell’apparato gastro-enterico, che costituiscono il microbioma, stimolano una memoria immunitaria che potrebbe creare uno scudo contro i tumori. Da qui, la notizia apparsa sui giornali di un “vaccino naturale” antitumorale, che sarebbe presente in chi è stato esposto a un virus nel corso della vita.
Ma è davvero così? Ne parliamo con Giovanni Apolone, Direttore Scientifico Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.
Sono speranze fondate?
Lo studio dice sostanzialmente che, in base ad alcune indagini effettuate in laboratorio, esiste la possibilità che il sistema immunitario abbia una risposta immunitaria importante, che aumenta man mano con l’esposizione a nuove infezioni virali e batteriche. Questa memoria potrebbe quindi essere potenzialmente protettiva rispetto allo sviluppo di alcune forme tumorali. Si tratta dunque di uno studio interessante, ma è un’evidenza emersa in laboratorio e che pertanto necessita di un percorso di validazione da parte di altri team.
Da decenni però di tanto in tanto vengono pubblicate notizie su vaccini anticancro, è una chimera?
Una quindicina di anni fa ci sono stati diversi tentativi di sviluppare vaccini che potessero avere un’attività nei confronti delle cellule tumorali, con l’obiettivo di fornire una risposta immunologica abbastanza specifica. Indubbiamente, i risultati preclinici si sono dimostrati promettenti, ma quelli successivi sono tutti falliti.
Oggi da più parti c’è la convinzione che lo sviluppo dei vaccini a mRNA anti-Covid potrebbero essere una strada da seguire. È vero?
Se i vaccini a mRNA sono stati messi a punto così rapidamente è grazie a una tecnologia che era in fase di studio nell’ambito delle terapie antitumorali. È possibile quindi che ci sia un’accelerazione nello sviluppo di vaccini personalizzati con queste stesse tecnologie. Non è semplice però. In teoria, si potrebbero identificare degli antigeni del tumore di un paziente, trasportarli in laboratorio e utilizzarli per sviluppare un vaccino ad hoc. Come per il vaccino a mRNA anti-Covid, anche in questo caso la molecola verrebbe avvolta in una microscopica navicella composta da liposomi, per far sì che determini una risposta anticorpale mirata contro uno specifico antigene.
Ma c’è un problema non indifferente a ostacolare il buon esito della vaccinazione. I tumori infatti hanno la caratteristica di essere eterogenei con una profilazione genetica e molecolare molto varia all’interno della massa tumorale, oppure con differenze tra tumore primitivo e metastasi, e persino tra metastasi e metastasi se sono più di una e collocate in diverse parti del corpo. In più, oggi si sa che le cellule tumorali hanno la capacità di selezionare dei cloni resistenti, al fine di sopravvivere nell’ambiente, che potrebbero a loro volta contribuire rendere inefficace un vaccino.
Quindi non ci sono speranze?
Ci si dimentica spesso che due vaccini anticancro sono già disponibili da anni: la vaccinazione anti-HPV, sigla di Papilloma Virus Umano, che permette di prevenire circa nove tumori su dieci della cervice uterina, della vulva e della vagina nella donna, del pene nell’uomo, dell’ano e del cavo orale in entrambi i sessi. E il vaccino contro l’epatite B, che elimina il rischio di contrarre l’infezione e di sviluppare negli anni una forma cronica della malattia che può degenerare in carcinoma del fegato.