La psicologa Luciana Murru ci guida a recuperare il vero senso delle feste rispettando la fragilità dei malati che ci sono vicini o che assistiamo in famiglia.
Manca poco e sarà Natale. Ma per chi ha un familiare malato, ricoverato oppure a casa, il 25 assume le sembianze di un gigante masso che pesa sul cuore e sulla mente. E le domande che ci si pone ruotano costantemente nel cervello: si festeggia oppure si fa finta di nulla? Casa decorata come al solito, oppure no?
«Nella nostra quotidianità siamo abituati a correre, ad avere mille pensieri in contemporanea, a interagire con tutti e con nessuno», interviene Luciana Murru, psico-oncologa di Milano. «A Natale si rallenta, ed è fisiologico. Le giornate sono ancora “corte”, la natura è in fase di quiete, gli animali sono in letargo, in attesa dell’arrivo della primavera, quando sarà un’esplosione di tutto ciò che è vita. Per questo, è d’uso illuminare le proprie case, le strade. La luce, che fa parte ancora oggi delle tradizioni di molti Paesi, e in certe zone anche da noi, è un simbolo importante, un rito che ci porta a tempi antichi». Decorare l’albero, ma anche semplicemente appendere delle ghirlande di luce in casa, oppure sul balcone, significa riconnettersi al tempo, alla bellezza, è la vita che pulsa nonostante l’inverno. Per questo, rappresenta un segnale positivo, trasmette serenità e amore a tutti, anche a chi sta affrontando la malattia.
Il bisogno profondo non è di cibo fisico, il bisogno profondo è di quel cibo che entra attraverso gli occhi, attraverso le orecchie, attraverso la pelle. E il pranzo, o il cenone a seconda degli usi, assume un altro significato. «Se in famiglia c’è una persona affaticata, che magari è anche sofferente, non si può pensare che possa reggere pranzi di durata infinita, carichi di portate, e la presenza di tante persone», sottolinea la dottoressa Murru. «Serve moderazione, serve rispetto per le sue condizioni fisiche. Questo però non significa scivolare nella tristezza, nella solitudine. Significa invece ritrovare il significato originario del Natale, che è la condivisione, il piacere di stare insieme, in un’ottica di qualità del tempo e non di quantità. È la presenza amorevole, la presenza rispettosa, far sentire al paziente che non è solo in questo suo momento difficile».
Onorare la vita, recuperare il senso delle Feste, che non ha nulla a che vedere con il consumismo. «Il malato ha bisogno di cure e non intendo quelle farmacologiche», sottolinea la Murru. «Natale è il momento giusto per l’apertura, per la generosità, per la condivisione, per interessi che vanno oltre sé stessi, per donare». Vuol dire accettare il familiare malato con la sua stanchezza, con i momenti no e quelli di serenità, coinvolgerlo nella preparazione delle piccole cose, impacchettare i doni, aiutare in cucina, far sì che avverta l’utilità della sua presenza.
Il dolore non si può cancellare, le lacrime non le toglierà nessuno. Fanno parte della vita e vanno accettate. E Natale, inteso com’è stato descritto fino ad ora, rimane tale anche se il proprio caro è in ospedale. «Ho parlato di luce, intesa come amore, gratitudine, dono, vita e tutto ciò, vale anche per l’ambiente ospedaliero», dice la Murru. «Il panettone viene condiviso con chi è di turno, col vicino di letto, nel rispetto per chi è ricoverato e per chi lavora. E con tutta le delicatezza necessaria, con dolcezza, senza malinconia, si rivede insieme ad esempio il video dei bambini che la mattina hanno scartato i doni, degli zii che mandano baci, degli amici che brindano a chi guarda il video. Tutto, in una condivisione di amore, che fa bene al corpo e alla mente».