La felicità è una porta che si apre dall’interno: per aprirla bisogna umilmente fare un passo indietro. La riflessione è del filosofo Soren Kierkegaard ed è estremamente attuale, oggi più che mai.
Le notizie che arrivano dal mondo, di guerre, di soprusi, di malattie, i problemi economici, minano il sorriso di molti e rendono difficile talvolta ritrovare il senso della felicità. E anche quella domanda, che è in voga ultimamente, “Sei felice?”, molte volte solleva risposte amare. Di certo, fa parte dell’essere umano ricercare la felicità, magari anche in maniera errata, per ritrovare quel bagliore di energia che rende la vita più bella.
Cos’è la felicità?
Ma cos’è in realtà la felicità? E cosa bisogna fare per essere felici?
Lo racconta Luciana Murru, psicologa e psicoterapeuta a Milano. Dottoressa Murru, c’è una definizione di felicità?
In generale, la felicità è uno stato psichico caratterizzato da tante cose, dal senso di soddisfazione, di pienezza, da uno stato d’animo positivo. È interessante poi la distinzione che negli anni è stata fatta tra la felicità edonica e quella eudaimonica. La prima, è legata alla gratificazione per qualcosa che arriva dall’esterno, è uno stimolo che provoca un attimo di felicità transitoria. La seconda, è una condizione di benessere interiore. Ne scrisse per primo Aristotele: la sua idea è che la vera felicità sia fondata sull’espressione delle proprie virtù e che il fine ultimo della vita sia quello di impegnarsi a realizzare la propria vera natura.
Sono due realtà diverse, oppure possono coesistere?
La felicità edonica è legata a oggetti che soddisfano una condizione interna, ma non è duratura e può portare a una spirale senza fine. Pensiamo ad esempio a chi compulsivamente acquista oggetti oppure capi di vestiario, per dare un’idea. Ma la felicità edonica può essere anche utile per alimentare la felicità eudaimonica, in chi, come scriveva il filosofo Kierkegaard, impara a fare un passo indietro. Significa non pensare a sé stessi in quanto individuo singolo, ma guardare oltre, aprire la porta del proprio essere verso l’esterno, verso il mondo, verso gli altri. Si nasce con la capacità di instaurare rapporti sani, consolidare un senso positivo di sé ed è questo che va coltivato nella propria esistenza.
Ci sono delle regole da seguire?
Noi siamo continuamente all’interno di relazioni, ma non sono tutte fonte di benessere. Mi spiego. Le relazioni per essere fonte di felicità devono essere supportive, sono quelle che fanno sì che si si senta “visti”, sostenuti, che aiutano a vivere lo stato di benessere positivo alla base della vita. È uno stato, ad esempio, di chi è resiliente. Ma bisogna fare attenzione. Quando parlo di relazioni supportive intendo quelle dove c’è uno scambio, uno stato di appagamento e di serenità, e si vive in una condizione dove si avverte che lo sguardo nei confronti del futuro è positivo, senza rinnegare i momenti di tristezza e di calo dell’umore, ovviamente. Ma possono esserci anche relazioni tossiche, che si riconoscono perché tutto ciò che ho detto fino ad ora non esiste. Sono rapporti a binario unico e per questo vanno lasciati andare.
Questo è sufficiente per essere felici?
Intanto, non si è perennemente felici, la felicità è di alcuni momenti e per il resto, tendenzialmente si sta bene. Ma per raggiungere questo stato ci vuole un grande lavoro su sé stessi: le relazioni supportive hanno un posto primario in questo senso, ma non sono l’unico ingrediente.