L’11 febbraio si celebra la giornata internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza. Per l’occasione abbiamo intervistato Giulia Della Chiara, ricercatrice nelle cosiddette STEM (Science Technology, Engineering, Mathematics)
Giulia Della Chiara ha 40 anni, lavora all’IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare, ed è una ricercatrice “pura”. Per intenderci, lei trascorre giornate intere in laboratorio, tra vetrini e microscopi e spesso il tempo sfugge di mano. Complici la passione e la voglia di arrivare a un traguardo, a una scoperta che, come ci ha raccontato, possa essere utile un domani ai pazienti. «Mi occupo di ricerca molecolare di base in campo oncologico», ci dice. «In particolare mi sono occupata negli ultimi 5 anni nel laboratorio del prof. Pagani qui in IFOM dello sviluppo di nuovi sistemi per studiare il tumore in una maniera più fisiologica possibile. Ancora meglio, generando degli organoidi, cioè dei piccoli avatar derivanti da campioni di tumore umano che coltiviamo e che usiamo per riprodurre appunto in vitro il tumore». Il compito di Giulia è di arrivare, come obiettivo finale, a ipotizzare nuove terapie future, a formulare ipotesi concrete su quelli che sono i talloni di Achille tumorali e come bersagliarli con dei farmaci ritagliati su misura in base al tipo di tumore. «La ricerca per me è la capacità di riuscire a trovare anche solo una risposta al quesito biologico che noi abbiamo di fronte tutti i giorni e tradurre questa risposta in possibili trattamenti per i pazienti. Questo per far capire che per me gli organoidi, appunto questi modelli che riproducono in vitro in maniera così fedele il tumore primario, sono motivo di grandissima soddisfazione per due ragioni. Intanto, rappresentano qualcosa che ho costruito partendo da zero nel laboratorio e inoltre, aspetto più importante, offrono la possibilità di pensare al paziente». Una grande soddisfazione, certo, ma ottenuta con sacrifici. «Sì, è vero, ma già durante la tesi magistrale ho avuto la fortuna di avere un professore che mi ha trasmesso la passione per la ricerca». Ricercatrice, ma anche donna. Come si combinano i due aspetti? «Mi ritengo fortunata perché ho un compagno che comprende perfettamente quello che faccio e riusciamo a gestire insieme le esigenze lavorative e personali», chiarisce Giulia. «Solo così è possibile portare avanti l’attività professionale e trascorrere senza rimorsi le serate a lavorare». In Italia, come d’altra parte nei Paesi mediterranei le posizioni di rilievo non sono certo occupate da donne, e questo vale per tutti i settori purtroppo. In Italia poi il ruolo del ricercatore non viene riconosciuto come un lavoro. Giulia, per 15 anni ha potuto portare avanti le sue ricerche grazie alle borse di studio. Cosa che non succede all’estero. «Ho scelto di rimanere nel nostro Paese perché i laboratori qui da noi non hanno nulla di meno rispetto a quelli nel resto del mondo», racconta Giulia ,«Ho voluto investire qui in Italia, anche se con molti rammarichi. Un esempio, i ricercatori con esperienze all’estero vengono anche premiati con più punti nei bandi di concorso». Giulia fa parte del comitato di equality gender che si occupa di livellare le differenze di genere e quelle interculturali. E nella sua carriera, ci tiene a sottolineare, non ha mai assistito a episodi di razzismo. Ma spesso ha assistito a situazioni dove la donna veniva trattata diversamente. Difficoltà, queste, che non le hanno fatto venire meno il desiderio di fare ricerca. «A una giovane che intende intraprendere questa strada, consiglierei di sicuro di fare le sue debite valutazioni, è una carriera che richiede sacrificio e la capacità di gestire bene la pressione. In più, il lavoro scientifico non è solo stress, ma anche frustrazione perché non sempre i risultati che noi otteniamo corrispondono a ciò che ci aspettiamo. Nella mia carriera, mi è capitato di lavorare quattro anni a una ricerca senza poi in conclusione firmare il lavoro scientifico. Ma c’è anche un lato positivo, che è quello di buttarsi in un lavoro che dà sempre qualcosa. Per svolgerlo però richiede tanta curiosità, solo così non si rimarrà mai deluse». Quanto è bello un lavoro scientifico col proprio nome in prima fila? «E’ come ricevere il pagamento del lavoro svolto, la possibilità di condividere il risultato di anni di fatica e di sacrifici, il risultato più grande per un ricercatore. Anzi, per una ricercatrice».