Il Canto di Natale di Charles Dickens è tra le favole più note ed probabilmente quella che meglio rende il senso del dono e dell’amore. Il protagonista, infatti, un uomo d’affari avaro ed egoista, incontra la Vigilia di Natale tre spiriti: il passato, il presente e il futuro. Questi lo portano a riflettere su ciò che è, su ciò che sarà se continua coi suoi atteggiamenti e a modificare i suoi comportamenti nei confronti degli altri, imparando così il senso del dono, dell’amore e della felicità. Ma è solo una favola, oppure Dickens si è ispirato alla realtà? Lo chiediamo a Luciana Murru, psicologa dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano e docente di ArtLab di LILT.
Dottoressa Murru, esiste una spiegazione al senso del dono?
L’economia del dono fa parte della cura e dell’amorevolezza, un sistema che è presente nel cervello. Fin dalla nascita, il cervello è programmato per una serie di sistemi che fanno capo a circuiti neuronali predisposti. Ed è così che in chi è rancoroso, rabbioso, come per l’appunto il protagonista della favola di Dickens, c’è un incremento dei neurotrasmettitori che provocano uno stato di stress elevato, ansia intensa, insomma, sentimenti negativi. La cura e l’amorevolezza, invece, stimolano l’incremento dell’ossitocina, chiamato non a caso l’ormone dell’amore.
Il dono è solo verso gli altri?
No, il dono è anche verso sé stessi. Chi non è in grado di concedersi un regalo, che significa, per esempio, una passeggiata per il piacere di farlo, dieci minuti di lettura di un libro la mattina prima che inizi la giornata, non è in grado di donare agli altri e se lo fa, spesso è per un suo tornaconto, per apparire. Invece, saper donare a sé stessi e agli altri, fa sì che incrementi il senso della resilienza verso i fatti della vita e lo stato di felicità. Questo è provato anche dalle ricerche. Ne cito una, ma l’elenco è lungo. Sono state coinvolte delle studentesse di psicologia, divise in due gruppi: a uno è stato chiesto di tenere traccia degli atti di gentilezza ed è quello che ha mostrato un incremento dello stato di benessere soggettivo che si è mantenuto nel tempo.
Nella favola di Dickens il protagonista cambia: è possibile anche nella vita quotidiana?
Certo, perché il cervello è una struttura plastica che cambia continuamente. In più, altro aspetto positivo, tutti noi tendiamo verso l’amore in senso ampio, perché è un sistema naturalmente più consono al nostro essere, alla vita. La gratitudine, gli atti di gentilezza, imparare a perdonarsi, avere cura del proprio corpo, coltivare le relazioni sociali: se si lavora su questi aspetti, più facilmente ci si proietta verso una vita felice. Questo sempre e a qualsiasi età, e anche in caso di malattia. Anzi, molte volte è proprio il percorso di cura a stimolare una riflessione e a essere la miccia che fa iniziare un cambiamento verso l’amorevolezza.
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Giornalista scientifica dal 1992, specializzata in comunicazione della salute con particolare attenzione all'oncologia. Esperienza pluriennale in campagne informative e divulgazione scientifica. Vincitrice del premio Giovanni Maria Pace nel 2019 per il giornalismo in ambito oncologico.