Bruno, la diagnosi e il senso della malattia
È stata mia figlia a convincermi a fare un controllo, sostenendo che se non c’era nulla, saremo stati tutti più sollevati e avremmo festeggiato con un altro animo il mio compleanno. Invece non è andata proprio così: qualcosa non andava bene e sono uscito dal controllo con già l’appuntamento fissato per la biopsia. Quanta fretta…. E il giorno del mio compleanno, guardando negli occhi mia figlia, le ho chiesto il regalo più prezioso in quella fase della mia vita: promettimi che non mi nasconderete nulla, voglio che tutto sia condiviso tra di noi.
Era novembre, uno di quei pomeriggi uggiosi caratteristici di Milano, col cielo incolore, il freddo che entra nelle ossa, la pioggerellina e un po’ di nebbia. Ero sottobraccio a mia moglie, nessuno parlava, mi sono girato verso mia figlia e le ho detto, ho un tumore. Senza il punto interrogativo, le conosco bene le mie donne, non avevo bisogno di quel “sì” che è arrivato sottovoce.
Siamo arrivati a casa, ero sfinito, io che sono uno sportivo, avevo solo voglia di sdraiarmi e dormire. Il percorso per arrivare alla diagnosi stanca, sfibra, ed è quasi un sollievo, alla fine, avere un esito, anche se la speranza è sempre quella di un esito negativo.
Avevo bisogno di solitudine, ma avevo troppo di tutto nella mia testa e neppure inforcare la bicicletta da corsa e macinare chilometri riusciva a restituirmi la pace. E adesso? Muoio? Proprio ora abbandono la mia famiglia? Quante domande che non mi lasciavano tregua. Ma ho capito proprio in quei giorni, in quella parentesi che c’è tra la diagnosi e il colloquio col l’oncologo, che dovevo tornare a essere “io”, a riprendermi la mia razionalità, a essere attivo e non passivo nella mia vita.
È arrivato il sabato, il nostro pranzo settimanale, tutti e tre riuniti. Ho chiesto a mia figlia, cos’è successo alla mia prostata? Lei la immaginava quella domanda, nell’aria da troppo tempo. Si è alzata, è tornata con una pagina con l’anatomia delle parti intime maschili, l’uretra, la ghiandola prostatica e ha cominciato a spiegami cos’era accaduto, perché mi sono ammalato, passo dopo passo.
Così, parlandone, mi ha anche convinto a cambiare medico, spiegandomi secondo lei cosa non la convinceva e sempre così, parlandone, mi ripeteva le parole dell’oncologo che mi erano sfuggite, ripercorrendo con me l’incontro, passo dopo passo. Non credevo di avere ancora qualcosa da imparare, e che la vita si ribaltasse, con mia figlia a portare me per mano, ma così è andata e ne sono felice, ho imparato anche a fare il punto il giorno prima delle visite, a segnarmi mentalmente le domande da fare all’oncologo.
La lezione più grande? Comprendere il senso della condivisione con la mia famiglia, non nascondere a me stesso e agli altri l’esistenza di una malattia oncologica. Con i miei amici ne parlo spesso, li invito a fare controlli, tra maschi non si fanno tanti giri di parole, ma quando parlo della visita, dell’esplorazione rettale, nonostante li convinca che non si sente nulla, noto un certo disagio. Ma io continuo impassibile con la mia personale campagna di prevenzione.
Il momento più strano? Quando l’oncologo, anziché parlarmi della malattia, mi ha chiesto, ma non va più in bicicletta? E il momento più bello? Quando sono risalito in sella.